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Anteprima

CHE ORE SONO

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Oggi sono tornata, dopo tanti anni, in un luogo che mi è sempre stato caro, un luogo che mi ha accolto in momenti piacevoli e soprattutto confortato nei momenti inquieti.

Ho percorso con la macchina il breve tratto di strada, che da quella principale porta verso lo sbocco sul mare. Sono scesa e mi sono lasciata avvolgere dall’aria pungente colma di salsedine, e nelle orecchie solo il rumore delle onde che si infrangono sugli scogli.

Sono rimasta lì in piedi, nessun passante, nessun rumore, se non quello del mare. Il cielo imbronciato lasciava intravedere la sagoma del promontorio.

Ho respirato, ma non sono riuscita a provare quelle sensazioni che nei ricordi mi hanno legato a quel pezzetto di terra protesa verso il mare.

E' tutto diverso: quel muretto che mi proteggeva dal vento si è fatto più piccolo, il breve tratto di spiaggia sassosa è sporco. E' tutto diverso: non ho più diciotto anni.

Solo il rumore del mare e il profumo di salsedine sono gli stessi. Un rumore mi ha infastidito e mi ha distolto dal ricordo.

Ma che ore sono?

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***

Matilde, guardando l’orologio, si rese conto di aver trascor- so tutta la notte davanti a quella tela, e il risultato non era molto soddisfacente.

Troppo rosso, troppo contrasto con tutto quel nero. Diavolo, ma che sta succedendo? Non ho mai usato colori così forti e intensi!

Alzandosi dallo sgabello che usava per dipingere, si avvicinò alla finestra. L’aprì e cercò di riprendersi con l’aria pungente che entrava nella stanza. Era stanca, non aveva voglia di tornare a lavorare su quella tela. Si buttò sul letto, cercando di riposare qualche ora. Al risveglio mise su quel CD che le piaceva tanto.

Tornò a sedersi sullo sgabello e il pennello cominciò ad affondare nei colori. Un ritratto di donna: lei leggermente di profilo in un lungo abito rosso. Ma di chi era quel volto che le armava la mano?

Il lavoro le piaceva e contemporaneamente sentiva, però, un senso di fastidio nei confronti di quella donna ritratta. Non le era mai capitato di provare una tale sensazione. Un po’ quel- la donna le somigliava fisicamente, per il colore castano dei capelli, gli occhi scuri e per qualcosa d’interessante nel viso.

Continuò a lavorare, assentandosi completamente da tutto il resto. Era sola in casa, nessuno poteva disturbarla e interromperla. Dopo diverso tempo, guardando nuovamente fuori dalla finestra, si accorse che ormai il cielo si stava tingendo dei colori del tramonto.

Accidenti, ma che ore sono? si chiese ricordandosi di avere un appuntamento di lavoro.

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***

Ma che importanza ha che ore sono, non mi aspetta nessuno. Sono comunque risalita in macchina e sono tornata a casa. Con pigrizia e indolenza mi sono preparata un pasto fugace, ho acceso la TV per riempire il silenzio della casa.
Poi, preso il mio bloc-notes, ho cominciato a trascrivere alcune idee da utilizzare per questo benedetto romanzo, il più delle volte senza un’apparente coerenza.
Il desiderio di evadere, come sarebbe la vita se...

La cosa certa è che in questo preciso istante la mia vita non procede molto bene. Eppure tutto farebbe pensare il contrario. Solo un anno fa, alle soglie dei quarant’anni, ho scritto un romanzo e me lo hanno pubblicato. Sono diventata, per un momento, un caso letterario. Un anno vissuto tra incontri, interviste, notorietà. Ho anche trovato un editore che vuole puntare sul mio nome per creare una nuova collana. E così, eccomi alle prese con il mio secondo romanzo.
Ho sempre sorriso all’idea del cosiddetto blocco dello scrittore! Ma come si fa a rimanere inermi davanti a un foglio bianco quando si ha il privilegio di colorarlo con la propria fantasia, raccontando la vita del protagonista e del mondo che gli gira attorno? Eppure devo ricredermi.
Guardo quel foglio bianco e mi sale l’angoscia di non avere più nulla da raccontare. Poche frasi che sistematicamente cancello, perché non hanno senso, non riesco a trovare l’idea, la trama ogni volta è sempre troppo debole perché acquisisca la forma di un romanzo.

Per il primo non era stato così difficile, anche se avevo scritto proprio di me, della mia vita. La complessità, allora, era dettata dal pudore che si ha nel raccontarsi apertamente.

Stavolta mi sono imposta di scrivere utilizzando solo la fantasia, prendendo magari spunto qua e là dalla realtà, ma principalmente volevo raccontare attraverso l’immaginazione. Eppure è così difficile iniziare. Forse un po’ di musica potrebbe farmi trovare l’ispirazione.

Suonano alla porta e, come al solito, non aspetto nessuno.

«Si può?» Riconosco la voce di mia sorella. Aprendo la porta mi ritrovo davanti agli occhi un bel mazzo di tulipani.

«Dai, entra.» La faccio accomodare in cucina.

«Ti va un caffè? Ho appena finito, diciamo, di pranzare» le dico sistemando velocemente i tulipani nel vaso.

«Come mai a quest’ora? Io ho già digerito il pranzo da un pezzo! Comunque non ho molto tempo, devo andare a casa che i bambini mi aspettano, però un caffè non lo rifiuto.» Metto su la moka, a fuoco basso. Ogni volta è un rito: riempire d’acqua, far scendere la giusta dose di polvere nera, l’attesa del rumore scoppiettante e l’aroma che pervade la stanza. Preparo le tazzine, quelle di ceramica colorata. Mi mettono allegria. Il caffè ha sempre su di me un effetto rilassante, quasi che riesca a mettermi di buon umore.

Stavolta però l’impresa è difficile.

«Allora, come va il romanzo? Quando mi farai leggere questa nuova opera?»

Guardo di sfuggita mia sorella. Mentre sorseggio il caffè, le rispondo con poca convinzione: «Presto, presto! Non avere troppa fretta». Non ho neanche il coraggio di dirle che sono ferma. Ferma alla prima parola.

«Mia cara, conoscendoti avrai già scritto almeno seicento pagine! Ma capisco la tua riservatezza, non insisto. Quando vorrai il mio parere...» Intanto si alza e si incammina verso l’ingresso. La seguo provando un senso di sollievo. Non ho voglia di fingere e tanto meno di parlare solo del libro.

Richiudo il portone alle sue spalle. E ora che faccio?

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***

Silvia a quell’ora era sempre intenta a preparare la cena per lei e suo marito.

Una vita da pubblicità, perfetta, ogni cosa al suo posto: la giu- sta dose di emozioni, di romanticismo ma anche di razionalità e concretezza. Si dedicava alla cura della casa, al matrimonio e ai tanti hobby. Nessun figlio. Di tempo libero ne aveva.

Erano trascorsi così quasi cinque anni, e forse iniziava a sentire il vuoto dovuto alla mancanza di figli. Per motivi di salute le era stato consigliato di abbandonare l’idea di averne, per non compromettere un equilibrio forse precario, tra ormoni e salute fisica.

In realtà, la malattia che l’aveva colpita in giovane età non era del tutto conosciuta, e così la prudenza si era rivelata un’arma necessaria. Con il suo caso aveva di certo abbassato l’età media delle donne colpite da tumore al seno.

Di colpo era diventata adulta, troppo presto.

Aveva affrontato tutta la faccenda con una calma impres- sionante, per il medico che la curava, per il chirurgo che la operava, per la sua famiglia. Il buon senso le aveva fatto ac- cettare con relativa calma la situazione, anche se dentro la paura non l’aveva mai abbandonata un istante.

Per Silvia quella era stata una giornata strana, segnata da un bizzarro impulso nervoso di aprire le finestre e respirare. L’aria raggiunse e riempì i suoi polmoni. Non che avesse di che lamentarsi o preoccuparsi.

La sensazione che qualcosa le sfuggisse aveva fatto capolino nella sua testa. Lo sguardo si smarrì tra i colori di un tramonto che sembrava fosse stato dipinto proprio per lei.

Ogni volta che il cielo si tingeva di rosso e il sole appariva come un’immensa palla di fuoco, non poteva fare a meno di pensare a suo padre. Era come se lui le volesse dire: “Sono qui, sto bene. Non preoccuparti per me e vivi serena come lo sono io”.

Cercò di riprendersi dallo stordimento in cui era scivolata. Di lì a poco sarebbe tornato suo marito e doveva ancora finire di cucinare e preparare la tavola.

​

***

Il buon senso mi dice di provare a passare un po’ di tempo davanti al computer e scrivere almeno una trama plausibile, il mio animo invece mi spinge a prendere un’altra decisione.

Ho bisogno di respirare aria nuova.

Nessun legame, nessun ostacolo. Prendo un catalogo di viaggi e decido di sceglierne uno. A caso. Finalmente scelgo: prenderò il treno per una città dove non sono mai stata. Non ho bisogno di allontanarmi troppo, solo quel poco per ritrovare la fantasia, la voglia di raccontare e raccontarmi. Prenoto treno e albergo, preparo rapidamente la valigia scegliendo poche cose essenziali. Starò via solo qualche giorno. Qualche telefonata di rito, giusto per avvisare che per un po’ sarò fuori.

Alla stazione controllo il binario, corro come una disperata verso il binario 10. Il treno è lì, pare che stia aspettando proprio me. Trovato il vagone, sto per salire quando sono distrat- ta da qualcosa. Poco distante, un uomo tiene dei fogli in una mano. Sta piangendo.

Rimango sospesa tra il marciapiede e il primo gradino. Quasi che la forza di gravità mi impedisca di compiere quel piccolo salto che mi porterebbe sul treno.

Ora prende il cellulare, compone un numero: chi starà chiamando? Sono lontana per capire le parole, ma abbastanza vicina per sentirne il respiro affannoso. Mentre parla continua a piangere, copiosamente.

Il capotreno mi riporta al motivo per cui mi trovo lì, devo salire sul treno se non voglio perderlo. Esito, attendo di vedere se anche l’uomo lo prende.

Eccolo riporre il cellulare in tasca, ricomporsi e salire.

Al fischio del capotreno compio lo sforzo di saltare su. Cerco il mio posto, sistemo il bagaglio e affondo nella poltrona.

Mi sveglio di soprassalto. Accidenti, ma che ora è?

Il ritmo del treno ha provocato in me un tale rilassamento che mi sono addormentata. Percepisco un respiro che non è il mio. Sbircio intorno a me per capire da dove provenga e mi accorgo che sulla sinistra, poco più indietro, è seduto l’uomo.

Rivolto verso il finestrino, il suo sguardo sembra assente. Il paesaggio scorre, ma non davanti ai suoi occhi. Tiene stretti nella mano un pugno di fogli. Forse gli stessi che leggeva alla stazione. Gli occhi sono ancora gonfi di pianto, che trattiene a stento. Il ritmo affannoso del respiro sembra non volerlo lasciar riposare.

Non mi era mai capitato di vedere un uomo piangere in un luogo pubblico. Doveva essere veramente sconvolto per farlo alla stazio- ne. Sarà per una donna? Per cos’altro, se no! Quasi la invidio.

Lo osservo, in preda a una forza di attrazione che non fa distogliere il mio sguardo dalla sua persona. Non è bello, distinto sì. Quello che mi colpisce di più è il movimento delle mani: morbido e delicato. E la cura con cui le muove tra i fogli. Comincio a sentire tutta la stanchezza del viaggio, anche se il tempo è trascorso velocemente tra il sonno e quell’uomo che ho scrutato a lungo.

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***

Giornata spossante, tutto il giorno tra il tribunale e lo studio.

I clienti che vogliono avere sempre ragione e lei lì a riempirsi di chiacchiere, a ribadire che non sempre i risultati possono essere favorevoli. Dentro di sé Giulia era certa che la scelta di frequentare Giurisprudenza era stata giusta, le era sempre piaciuta. Certo, un ripensamento lo aveva avuto, ma dopo aver ripreso gli studi sembrava che tutto fosse filato liscio.

A distanza di qualche anno, ora aveva uno studio più che avviato, era conosciuta nel settore del diritto di famiglia. Si occupava principalmente di minori, era molto legata ai bambini, anche se non ne aveva. Forse proprio questo l’aveva spinta a interessarsi dei tanti piccoli abbandonati o costretti a vivere in situazioni di disagio. Entrando in villa, chiuse il portone dietro le sue spalle.

Le corse incontro Flò, una piccola cocker. Quando la vide la prima volta, rimase affascinata dall’espressione dolce del suo musetto. Si erano piaciute a prima vista e dal momento che Flò era in cerca di casa, Giulia aveva deciso di metterle a disposizione la sua.

Sono i cani a scegliere me o sono io che non so resistere a loro? si domandò togliendosi in corridoio le scarpe che iniziavano a farle male. Arrivata in camera si guardò allo specchio. Non era bella, non si sentiva tale. I suoi capelli troppo castani, i suoi occhi troppo scuri, c’era sempre qualcosa che non andava in lei.

Si preparò un bagno caldo e si immerse nell’acqua nascon- dendosi nella schiuma profumata, perdendo la cognizione del tempo. Fu la sveglia proveniente dal suo cellulare a di- stoglierla dal torpore.

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***

Finalmente l’annuncio, il treno sta entrando in stazione.

Mi infilo il cappotto, tiro giù la valigia e mi dirigo verso l’uscita del vagone. Proprio dietro di me, l’uomo. Ne riconosco il respiro. Non faccio in tempo a scendere dal treno che il cellulare si mette a squillare. E' mia sorella.

«Diamante, sei arrivata? Si può sapere che ti prende, partire così all’improvviso!»

«Non ti devi preoccupare, ti ho detto che è per lavoro.» Mi rendo conto però che la mia voce tradisce un certo fastidio.

«Lavoro, lavoro. Non me la racconti giusta. Non sarà mica per un uomo?» Mia sorella ancora non si dà pace che io non abbia nessuno accanto.

«Ma che vai pensando! Senti, ora ti devo lasciare altrimenti non raggiungerò mai il mio albergo. Non ti preoccupare che mi faccio viva io quando posso!» Taglio corto, un po’ per il freddo con cui la città sembra darmi il benvenuto, un po’ perché voglio seguire quell’uomo.

E' sceso con me. Si guarda intorno come se aspettasse di incontrare qualcuno. Forse l’autrice della lettera?

Gli si avvicina un tipo che, dopo averlo salutato, lo invita a seguirlo. Gli corro dietro e capisco che stanno parlando di lavoro. D’improvviso perdo tutta la curiosità per lui. Non sono partita per fare l’investigatrice, anche se un giallo non sarebbe male come secondo romanzo.

Mi dirigo verso il primo taxi della fila, salgo e chiedo all’autista di portarmi velocemente in albergo.

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(fine primo capitolo)

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